Tecnologia condivisa o catastrofica?

Saper tornare indietro per sopravvivere alla crisi climatica.

di Michela Zucca - SECONDA PARTE

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La produzione del formaggio 'Bitto storico'

Nelle comunità preindustriali alpine esisteva un modello economico che tendeva all’autarchia: si cercava di produrre tutto quanto serviva all’autosussistenza, per ridurre la necessità di servirsi degli scambi di mercato.

I sistemi tecnologici tradizionali sono tutt’altro che 'semplici'

Nelle comunità preindustriali alpine esisteva un modello economico che tendeva all’autarchia: si cercava di produrre tutto quanto serviva all’autosussistenza, per ridurre la necessità di servirsi degli scambi di mercato. Le relazioni di produzione erano definite in base alla parentela. La forza lavoro si limitava a ciò che la famiglia poteva gestire, eliminando gli sprechi. Questo sistema economico è crollato quando è entrato in contatto col mercato, sia per quanto riguarda le civiltà 'di interesse etnografico', sia per le culture contadine europee.

Ma non si può considerare arretrato il sistema economico tradizionale, perché riusciva a realizzare ciò che gli economisti oggi provano (invano) a teorizzare: il ciclo chiuso, produzione-consumo-riuso/riciclaggio dei rifiuti-cura dell’ambiente. La produzione 'tradizionale' di energia consente di reimpiegare la stessa fonte più e più volte, per usi diversi (fra cui nel caso dell’acqua anche quello umano), di essere gestita dal basso, spesso di non bruciare niente (a parte per il riscaldamento delle abitazioni), quindi evitando CO2, scorie e rifiuti.

L’elaborazione collettiva di un ciclo di produzione prevede la diversificazione a seconda del territorio e l’invenzione di tutta una serie di attrezzi di grande precisione e specificità. Questo implicava la formazione di competenze complesse che venivano tramandate. Di fatto anche se non rende moltissimo, azzera gli sprechi e l’impatto ambientale. A livello tecnologico, si tratta spesso di strumenti estremamente precisi e insostituibili particolarmente adatti a quel tipo specifico di lavorazione e di ambiente, che non possono essere standardizzati. È nella valorizzazione delle differenze che la tecnologa delle società tradizionali riesce a dare il meglio, e per questo non può essere sostituita dalla produzione industriale (che si considera più 'avanzata').

Per questo motivo non si può pensare alla tecnologia e all’economia tradizionali come a sistemi 'semplici': viceversa, si tratta di metodologie complesse di sfruttamento della natura che minimizzano il danno, e che possono fornire delle idee utili in tempi di crisi ambientale.

 

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Dal ritiro del Ghiacciaio del Palü (Valposchiavo), si è formato un nuovo «Lagh da Caralin»; appena sopra ne sta nascendo un altro non ancora 'battezzato'

 

La tecnologia dei poteri forti porta alla catastrofe planetaria

Quando questa organizzazione, che è durata per migliaia di secoli, è saltata su vasta scala, il pianeta si è avviato verso il disastro ecologico. Il 'progresso tecnologico' e il capitale hanno accelerato il processo di marginalizzazione delle montagne.

Il 60% dei comuni d’Italia sono oramai aree in cui non vi sono più servizi e produzione; luoghi dove vive meno di 1/4 della popolazione complessiva del Paese. Un modello di organizzazione geografica dell’economia che è già affermato in gran parte dai paesi a 'sviluppo avanzato'.

Così mentre la popolazione italiana aumenta del 20% in cinquant’anni, sono pochissimi i comuni alpini che reggono il passo: gli altri si avviano inesorabilmente verso la marginalità economica, sociale, culturale. Lo spopolamento è aggravato dal «brain drain» giovanile: la provincia di Bolzano ha i tassi più alti d’Italia di emigrazione di diplomati e di laureati.

Il problema dello spopolamento si ripercuote immediatamente a livello di territorio. I versanti curati per tremila anni, terrazzati, spietrati, sorretti dall’intervento umano, non reggono all’abbandono. Ritorna il bosco con le piante ad alto fusto, che non sono più tagliate: si ripristina il limite altimetrico naturale degli alberi, abbassato dall’intervento umano per creare spazi di pascolo per le bestie. Il terreno, non più sorretto dalle terrazze che non vengono più riparate e si disfano, frana, trascinando con sé tutto ciò che esiste fino a valle. Gli interventi 'tecnologici' di controllo (come la cementificazione dei letti dei torrenti) non fanno che peggiorare la situazione, perché pensano di sostituire il lavoro umano di presidio e riparazione che soltanto la permanenza degli abitanti e una cultura di lavoro e di cura condivisa e costante possono realizzare.

Questo tipo di tecnologie sono praticamente inutili: costosissime, mettono a repentaglio la vita di operatori altamente specializzati e ben più utili in altre condizioni, salvano una manciata di vite (quando va bene) ma non servono a salvaguardare il territorio. Sono una vetrina per i politici, che possono vantarsi dell’efficienza della protezione civile, investire in mezzi tecnologici scenografici e filmare interventi spettacolari, mentre il lavoro di controllo e ripristino del degrado è continuo e non fa notizia (ma permetterebbe di limitare il danno).

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Enea, nel 2100 oltre 5.600 km2 Italia sommersi da mare

Si tratta comunque di tecnologie che difficilmente potremo permetterci in futuro. Anche la migrazione verso metropoli sempre più grandi dovrà interrompersi causa il riscaldamento globale. I dati metereologici danno entro il 2050 il clima di Milano come quello di Karachi oggi: gran parte delle città di pianura non saranno più abitabili. Quelle situate sulla costa saranno sommerse, e con loro la maggior parte degli impianti tecnologici che servono a rifornimenti di carburante e trasformazione. Non c’è tecnologia che tenga contro l’innalzamento dei mari: Venezia è solo l’inizio.

A causa della crisi climatica che il mondo deve affrontare siamo obbligati a fare 'un passo indietro' nello sviluppo e nel consumo delle risorse. Per questo è necessario studiare quelle società che sono state capaci di darsi dei limiti e all’occorrenza di 'regredire' anche a livello tecnologico. Come hanno fatto nei secoli le comunità alpine. 

 

L’agricoltura a zappa rimane la più produttiva a livello globale

Fra poco, a causa del riscaldamento climatico e dell'impossibile scalata sociale a meno che non si appartenga al 10% di popolazione privilegiata, molti di noi dovranno porsi il problema di come cibarsi e di come scaldarsi in inverno. Dato che in Italia gran parte del territorio agricolo è stato abbandonato, soprattutto in montagna, si sono aperti spazi di libertà che consentiranno la pianificazione di una società diversa possibile, basata sulla condivisione. Un sistema sociale 'tradizionale', che consente a tutti di vivere, e che, a fronte di costi sociali tutto sommato limitati, permette la massima protezione agli elementi deboli.

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Causa la carenza di cibo, durante la seconda guerra mondiale si coltivarono patate e colza di fronte al Teatro dell'Opera di Zurigo .

Ci sono elementi che fanno sperare ancora. Malgrado il 'progresso', l’orticoltura a zappa rimane la metodologia più produttiva in assoluto. Gli ultimi dati disponibili riguardano la Russia: il 30% della superficie, lavorata a mano con attrezzi 'primordiali' produce il 70% delle derrate alimentari disponibili per la popolazione. Con danno ecologico e sprechi ridotti al minimo. Anche in Italia i dati CIA dimostrano che il 50% delle persone ha accesso a un orto. Non esistono dati certi per l’accesso alle risorse forestali.

Stiamo cercando di capire quali meccanismi sociali hanno messo in campo culture che, in diverse parti del mondo, hanno deciso di 'tornare indietro'. Fino ad ora è stato interpretato come segno di imbarbarimento. Ora però si impongono criteri diversi. 

 

Una nuova tecnologia è possibile

Non sarà possibile alzare la nostra qualità della vita finché le leve del progresso, della creatività e dell’innovazione rimangono in mano a specialisti al soldo del potere e delle classi alte: la scienza serve a poche persone perché la conoscenza e gli strumenti di elaborazione non sono condivisi.

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Orti di città presso Monaco di Baviera

Visto che per millenni le comunità si sono ottimamente gestite elaborando tecnologie adatte al proprio ambiente e sfruttando al meglio l’ecosistema senza depauperarlo troppo; visto che è possibile costruire una conoscenza condivisa adatta alle esigenze collettive basata sul lavoro di tutti, senza apparati gerarchici e con una struttura repressiva minore di quella imposta dal mercato; visto che la crescita non tornerà, è ora di riprenderci quegli spazi di conoscenza, di azione e di autogestione comunitaria che ci consentiranno non solo di sopravvivere alla crisi, ma anche di vivere meglio. È ora di riprenderci quelle risorse che nascono dal territorio e che non abbiamo nessuna voglia di condividere con chi le usa soltanto per accrescere la ricchezza di pochi. È ora di abbandonare le metropoli, centri di concentrazione di potere e capitale, di popolazione costretta ad accettare qualunque condizione di lavoro perché obbligata a pagare tutto, privata della possibilità di produrre dalla terra: bisogna ricominciare a fidarsi degli altri e a lavorare insieme. Per elaborare una nuova tecnologia condivisa e gestibile dal basso. 

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