La tecnologia

OK le macchine, ma salviamo l’uomo

Il rischio? Diventare strumenti dei nostri stessi strumenti

di Ivan Mambretti  | prima parte |

The Imitation Game 1280

The Imitation Game (2014) di Morten Tyldum

Cinema e tecnologia sono sempre andati di pari passo. Anzi, d’amore e d’accordo.

Sin dai tempi del muto, cineasti e produttori hanno costantemente mantenuto un occhio di riguardo verso l’innovazione tecnica, nella certezza di trarne giovamento soprattutto sul piano estetico e formale. Prova ne sono i remake dei film di maggiore successo che si ripresentano periodicamente in cornici sempre più sofisticate e raffinate. Oggi, si sa, l’opulento cinema hollywoodiano fa ampio e smodato uso del digitale e non è un caso che si stiano modificando tutti gli elementi dell’industria: dal finanziamento alla produzione, dalla distribuzione alle opportunità di fruizione da parte del pubblico. Un film non è più necessario andarlo a vedere in sala (che resta comunque il luogo privilegiato). Ci sono oggi computer, tablet, smartphone ecc. I film possono essere visti in streaming, scaricati su dispositivi mobili ovunque e in qualsiasi momento. La registrazione computerizzata ha ormai abituato gli attori a recitare in spazi neutri senza riferimenti alla realtà, per ritrovarsi poi inseriti in paesaggi virtuali: un bosco popolato di animali fantastici, un giardino fiabesco, un mare fasullo, un monte dalle forme improbabili...
La pellicola di celluloide? Un reperto archeologico, un ricordo dei nonni. Le care vecchie 'pizze' hanno fatto il loro tempo lasciando il posto ai nuovi supporti. Una vera rivoluzione che non finisce qui. All’orizzonte ci sono strumenti di precisione e compressione delle immagini e persino discutibili progetti per riportare sugli schermi le rielaborazioni di miti del passato come Maria Callas o James Dean!
Si stanno modificando anche linguaggi e stili narrativi. Il cinema si adegua ai nuovi modi di raccontare giocando spesso con una disposizione delle sequenze che non rispetta più la narrazione cronologica. Ma la multimedialità non rinuncia ad assorbire l’eredità della vecchia scuola cinematografica rimarcando l’attenzione al ritmo, al sound, alle performance, allo script. Insomma, tradizione e innovazione che cercano il giusto amalgama per accontentare il pubblico di ogni età.

Un titolo significativo, tanto per cominciare, è The Imitation Game (2014) di Morten Tyldum, biopic che racconta la vita tribolata del matematico gay Alan Turing, pioniere inglese dell’informatica che durante il secondo conflitto, da un luogo top secret del Regno Unito, diede un contributo determinante per la sconfitta dei tedeschi. In che modo? Ideando un enorme e rozzo proto-computer in grado di intercettare e decodificare i messaggi nemici.

 

Fantasy e fantascienza

I primi beneficiari del progresso tecnologico sono sempre stati i piccoli spettatori, dai tempi degli artigianali cartoons di Walt Disney all’odierna risorsa dell’animazione chiamata stop motion, alternativa al disegno a mano. Pietra miliare del nostro tempo è stato La storia infinita (1982) di Wolfgang Petersen, col bimbo che si rifugia in soffitta a fantasticare sui libri di fiabe. Sino alle odierne saghe del Signore degli Anelli e Harry Potter, ricavate da popolari best-seller, o all’imperitura serie più propriamente fantascientifica di Star Wars, che strizza l’occhio ai film di cappa e spada dove i duellanti, al posto delle lame, intrecciano raggi laser.

Il cinema dunque non solo non si arrende, ma si mette a guardare con interesse al mondo del web cercando di sfruttarlo al meglio. Anzi, ne subisce il fascino sin da quando il computer era l’oggetto arcano nelle mani di pochi scienziati e cominciava a plasmare i primi fanatici della tastiera. Gli effetti speciali faranno il resto, dando al pubblico la sensazione di essere non al cinema ma davanti a un videogame.

Con la trilogia di Matrix (iniziata nel 1999), i fratelli Wachowski pongono le prime domande esistenziali circa l’impatto della tecnologia sulla mente degli uomini, che ne ravvisano le incredibili potenzialità e si stupiscono per la velocità della sua evoluzione, ma fiutano anche il rischio di perderne il controllo e hanno paura di ciò che accadrà in futuro. Matrix è il nome del gigantesco computer che si collega coi cervelli umani e li condiziona. L’attore Keanu Reeves è Neo, personaggio che sembra uscito dai fumetti, uomo dai poteri eccezionali, maestro di arti marziali, con la ‘mission’ di risvegliare l’uomo dal sonno cibernetico.

Altro film che mette in luce l’ambiguità dell’intelligenza artificiale è Ex_Machina (2015), dell’inglese Alex Garland, dove un esperto programmatore entra in contatto con un robot dalle sembianze femminili. Ma gli esempi più eclatanti ci vengono dal mago Steven Spielberg. Ritorno al futuro (la trilogia), Minority Report e A. I. - Artificial Intelligence sono film in cui l’uomo inventa la macchina del tempo o congegna intelligenze artificiali avvolte in corpi apparentemente umani (Minority Report ricorre addirittura al paranormale: grazie a dei veggenti, una polizia altamente specializzata è in grado di prevedere i crimini). Ma Spielberg è autore anche di un flop come Ready Player One, forse perché ossessionato dalla tecnologia che lo rende troppo avanti rispetto a un pubblico cinematografico ancora piuttosto sempliciotto. Qui il protagonista si auto-proietta nel cervello una second life. Ma non è un argomento nuovo. Già in tempi non sospetti un autore peraltro non di fantascienza come Wim Wenders, nel road-movie Fino alla fine del mondo (1991), aveva immaginato una speciale telecamera che, collegata al cervello umano, era in grado di inglobare sogni e ricordi. Si trattava di correnti cerebrali che restituivano persino la vista ai ciechi, come avveniva per la madre in fin di vita del protagonista. In realtà lo scopo del profetico Wenders era di lanciare un segnale d’allarme sui pericoli di un progresso che sfugge di mano e crea una onnivora 'civiltà dell’immagine' a scapito della scrittura e persino della parola.

Tentativi di altissimo livello sul rapporto fra lo spazio e il tempo sono il capolavoro di Stanley Kubrick 2001. Odissea nello spazio (1968) e lo splendido Interstellar (2014) di Christopher Nolan. Partendo dal presupposto che le due dimensioni spazio-tempo finiscono per essere un tutt’uno, i registi lavorano proprio in quest’ottica regalandoci finali sconvolgenti (significativa soprattutto la ribellione del computer a bordo dell’astronave di Kubrick: una delle più efficaci metafore della lotta fra l’uomo e la macchina).

In Avatar (2009) James Cameron utilizza gli effetti speciali per i mutamenti fra uomini e cyborg. Nel film è in corso una guerra per conquistare il pianeta Pandora, fonte del male come il mitologico vaso. Per captare informazioni sugli abitanti, i terrestri cercano di avvicinarli rendendosi simili a loro mediante un transfert indotto da una sorta di Tac. La serie post-apocalittica Terminator (data di inizio 1984), anch’essa ideata da Cameron, è invece incentrata su un cyborg inviato indietro nel tempo per uccidere la donna che porta in grembo una vita destinata a salvare l’umanità dalle macchine in rivolta. Il fatto è che dal futuro arriva anche un soldato incaricato di proteggere la donna! Film che tocca il pio desiderio di cambiare il corso della storia. Arnold Schwarzenegger è molto convincente nel rappresentare un corpo che è un mix di carne e ossa e di ferraglie robotiche.

Ma la prima macchina cinematografica del tempo ad aver avuto successo fu portata sullo schermo già nel 1960 dal regista Goerge Pal in L’uomo che visse nel futuro, dal celebre romanzo di H.G. Wells. Con mezzi artigianali, certo. Ma varrebbe la pena di riscoprirlo per comprendere come un buon artigianato, pur nella sua rudimentale ingenuità, non sia tanto meno espressivo degli effetti speciali d’oggigiorno.

Sul tema delle capacità di 'comprensione' delle macchine artificiali la dice lunga un classico come Blade Runner (1982), di Ridley Scott che si rifà a un altro scrittore specializzato nel genere: Philip K. Dick.

Blade Runner01Una pagina importantissima della storia del cinema che ha il merito di aver ipotizzato l’ambito emotivo degli androidi. Lo sfondo è l’immagine decadente di una città multietnica sempre battuta dalla pioggia, cupa, sporca, fetida, opprimente, deprimente, attraversata non da automobili ma da aeromobili. Città popolata non da semplici robot ma da umanoidi, cioè soggetti meccanici simili all’uomo, sia per aspetto fisico sia per la capacità di relazionarsi con un universo che non gli appartiene. Momento cult del film il monologo del replicante che dà sfogo ai suoi ricordi rivelando una malinconia che è propria degli umani. I cinefili sanno a memoria le sue ultime parole: «Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginare: navi da guerra in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti come lacrime nella pioggia. È tempo di morire». E muore (muore o si spegne?) traendo in salvo Harrison Ford, il poliziotto che gli dava la caccia e stava precipitando da un cornicione.

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[sarà pubblicata il 4 marzo 2020]

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