Praterie e periferie

Dagli orizzonti naturali del lontano ovest al degrado suburbano del vecchio continente

di Ivan Mambretti - PRIMA PARTE

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Dall'epopea del Far West al deterioramento suburbano delle città europee

PREMESSA

L’argomento è volutamente diviso in due parti in ragione del doppio volto che vi abbiamo individuato: quello del paesaggio naturale che si lascia contaminare dalle umane esigenze (tipico dell’epopea del Far West) e quello delle ingiurie inflittegli dalla modernità (come il deterioramento suburbano delle città europee).

A capire per primi il ruolo fondamentale del paesaggio nella narrazione cinematografica furono i cineasti americani e segnatamente i registi dei film western del primo Novecento, quando attori e mandriani spesso si identificavano (è il caso di Tom Mix che ispirò John Wayne, cowboy per antonomasia). Pionieri che fiutarono il senso epico delle infinite praterie, le suggestioni della frontiera, la poesia del tramonto nella vastità di orizzonti luminosi, con le lunghe file dei conestoga, l’insidia dei crotali nascosti fra le nude rocce e i cactus spinosi. Le fatiche per una terra da conquistare, da abitare, da coltivare. Una terra contesa fra i bianchi e i pellirosse. La stelletta degli sceriffi contro il cappellaccio dei banditi, il saloon come luogo privilegiato delle scazzottate, i bisonti immolati alla causa della civilizzazione, simboleggiata dalla ferrovia per unire le due coste. E ancora il paesaggio come espressione della natura diversa per latitudine e clima, con scorci ospitali e angoli pericolosi, i deserti del Messico e le nevi del Montana. Insomma, col cinema western il paesaggio cessa di essere la semplice cornice dell’azione e diventa protagonista, irrompendo nell’eterna lotta fra il Bene e il Male.

Nella seconda parte del nostro scritto, voltiamo decisamente pagina. Lasciamo le lontane Americhe per tornare a casa e raccontare paesaggi nostrani. Meno sterminati, certo, ma non meno belli. Anzi, la loro bellezza ci è riconosciuta in tutto il mondo. Ma al contrario dei panorami d’oltreoceano che si fondono con la natura degli uomini, i nostri sembrano obsolete cartoline illustrate utili alla promozione turistica più che all’arte del cinema. Ecco allora che i paesaggi filmici più significativi della nostra realtà non sono quelli cari al turismo, ma le squallide periferie metropolitane. Uno squallore che, beninteso, troviamo anche nel cinema americano, dove però i bassifondi delle megalopoli, oggi frutto di meticolose rielaborazioni digitali, sono per lo più cornici funzionali alle sole trame di film di genere (thriller, crime-story, action-movie ecc.) e non al cinema di denuncia, amato invece dai nostri registi, che allestiscono i loro set soprattutto nelle aree marginali di Roma e Napoli. Qui in effetti vive e/o sopravvive un’umanità inquieta, disperata, grezza, incolta, anche se spesso attraversata da lampi di sincero sentimento.

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Corviale, Roma (foto: romasociale.com)

 

PARTE I - Il far west: nascita e sviluppo di una nazione

Dalla Monument Valley “reinventata” da John Ford per Ombre rosse (1939) alle Montagne Rocciose e giù giù sin verso il Rio Grande, i maestri del western (Anthony Mann, Delmer Daves, Howard Hawks, Roul Walsh, John Sturges...) hanno legato le loro pellicole a scenari memorabili. Citiamo a caso le copiose mandrie in Il fiume rosso (1948) di Hawks o in Gli implacabili (1955) di Walsh. Sono ancora ben vivi nell’immaginario di chi ha visto il genere fiorire tra gli anni Quaranta e Cinquanta, col passaggio dallo schermo sottodimensionato alla lente “anfiteatrale” del cinemascope, dal bianco e nero al colore, dal vecchio gracchiante audio alle pulite sonorità stereo. Esiste dunque tutta una mitologia western che ha sempre raccontato storie piccole ma col carattere dell’universalità. Arizona, Dakota, Kansas, Missouri, Texas. Nomi di States divenuti familiari anche da noi proprio grazie al cinema. E poco importa se molti di quei paesaggi sono stati ricreati negli studios hollywoodiani. Merita comunque di ribadire tutta la spettacolarità della Monument Valley, brulla pianura ornata di ciclopiche sculture naturali e di cime piatte che si stagliano nel cielo. L’inossidabile coppia Ford-Wayne ci tornò più volte per girare capolavori come Il massacro di Fort Apache (1948) e I Cavalieri del Nord Ovest (1949), indirette commemorazioni della sconfitta del generale Custer contro Toro Seduto, Rio Bravo (1950), dove la dura vita militare si intreccia con complicate relazioni familiari, e Sentieri Selvaggi (1956) in cui John Wayne, reduce dalla guerra di secessione e rientrato nel suo ranch nel Texas, va in cerca della nipote rapita dai Comanche. Magica la ripresa finale da un oscuro interno: Wayne ha compiuto la sua missione salvifica e adesso se ne va con la proverbiale andatura verso nuove imprese, perdendosi nella valle solitaria come si conviene all’eroe che mette il suo coraggio al servizio dei deboli e nulla chiede in cambio.

Ford si trasferisce infine nello Yellowstone per girare il suo film-testamento: Il grande sentiero (1964). Titolo originale Cheyenne Autumn, è un atto di rispetto nei confronti degli indiani, in fuga dalle riserve dell’Oklahoma per fare ritorno nelle natìe terre del Wyoming.

Le colline di Little Big Horn furono il teatro naturale in cui si consumò l’eccidio del Settimo Cavalleggeri al comando del generale Custer, intrappolato dagli indiani. Nessun dubbio su quale sia il miglior film sullo storico episodio: Il Piccolo Grande Uomo (1970) di Arthur Penn, con un magistrale Dustin Hoffman nei panni di un bianco cresciuto fra i pellirosse e quindi in crisi di identità. Il film è sfacciatamente dissacrante nei confronti di alcuni miti del West: ad esempio Custer è descritto come un folle vanaglorioso, il pistolero come uno sbandato vagabondo, i personaggi di contorno sono grotteschi e inetti, mentre appare assurda la crudeltà nei confronti dei nativi. Dello stesso anno è Soldato Blu di Ralph Nelson, metafora dell’orribile strage compiuta da soldataglie statunitensi ai danni di anziani, donne e bambini in un povero villaggio vietnamita.

Attratto dalla Monument Valley è stato anche Sergio Leone, cultore dell’american dream e re degli spaghetti-western, che per C’era una volta il West (1968) vi ha girato la splendida sequenza con Paolo Stoppa e Claudia Cardinale in calesse, commentata dalla dolce musica di Ennio Morricone.

Tutto il cinema, western compreso, ha avvertito i contraccolpi del Sessantotto. Tracce di malinconia si trovano ad esempio nei film dell’elegiaco Sam Peckinpach Il mucchio selvaggio, La ballata di Cable Hogue, Pat Garret e Billy Kid

La contestazione giovanile ha cambiato profondamente il modo di guardare al western e ai suoi canoni. Ne hanno pagato il prezzo proprio i grandi maestri del passato, la cui opera è comunque consegnata alla storia del cinema. Uno dei più significativi film “sessantottini”, realizzato fra le strane conformazioni dello Zion National Park (un’alternativa alla Monument Valley come segno di rivoluzione!) è Butch Cassidy (1969) di Geroge Roy Hill. A sottolineare il cambiamento compare qui, come già l’automobile in Peckinpah, la bicicletta. Chi non ricorda il trio Paul Newman-Robert Redford-Katharine Ross, allegri protagonisti in bici sulle note della canzone di Burt Bacharach “Raindrops keep fallin’ on my head”? Ancora biondo e bello, Redford è interprete di Corvo rosso, non avrai il mio scalpo (1972) di Sidney Pollack, sulle peripezie di un cacciatore di pellicce in continua lotta con una natura indomita fra i boschi e i monti della Ashley National Forest. Il film rilegge in chiave critica la storia del West, soprattutto nobilitando la figura dei pellerossa.

Dello stesso anno è Un uomo chiamato cavallo di Elliot Silverstein. Qui Richard Harris è un giovane aristocratico inglese che, venuto a caccia nel Montana, viene catturato dai Sioux e usato come animale da soma. Egli riesce però a superare indicibili prove di resistenza al dolore e diviene il loro capo. Per la descrizione della simbiosi uomo-ambiente il film è considerato un western ecologico. Così come il magniloquente Balla coi Lupi (1990) con Kevin Costner regista-protagonista nei panni di un ufficiale mandato in un remoto avamposto dove fraternizza coi pellirosse immergendosi nella loro cultura e quasi dimenticando di essere un “viso pallido”. È un film dalle tematiche attuali ma di impianto tradizionale, di cui è rimasta memorabile la fragorosa corsa dei bisonti nella prateria.

Il western classico oggi è morto e sepolto. Ma il progresso non ne ha fermato le nostalgie. Esiste infatti un western diverso e moderno, dove i cowboys corrono su cavalli di ferro, a due o a quattro ruote. Esemplari i due hippies raccontati da Dennis Hopper in Easy Rider (1969), che attraversano l’America a bordo dei chopper, speciali moto entrate nella legenda. La loro meta doveva essere il carnevale di New Orleans, ma durante il viaggio vengono entrambi uccisi da mano ignota.

La tecnologia, incalzante e seducente coi suoi mezzi meccanizzati, ha dunque fatto il suo ingresso nei vecchi scenari che però, quasi per miracolo, restano immutati, anche se attraversati da infiniti serpentoni grigi di strada asfaltata. Paesaggi il cui fascino non ha risparmiato il nostro Michelangelo Antonioni, che pur essendo un autore italianissimo ha scelto di girare una parte di Zabriskie Point (1970) nell’inferno californiano della Death Valley, dove tutto è spettrale e letale. Né ci saremmo aspettati che ad ambientare un suo film in location western potesse essere il tedesco Wim Wenders, che in Paris,Texas (1984) racconta di uno smemorato che vagando solo e senza meta in plaghe deserte ricostruisce il sottile filo dell’esistenza recuperando perduti affetti (fra le sonore frustate della chitarra di Ry Cooder). Ma ancora prima di Wenders, gran bel regalo del mago Steven Spielberg che debutta nel lungometraggio col cult on-the-road Duel (1971). In questo thriller onirico un americano tranquillo in giro con la macchina per lavoro si imbatte in un brutale inseguitore: un tetro camionaccio che non gli lascia tregua. Corse e sorpassi mozzafiato in un’allucinante tragica sfida. Il vuoto delle enormi autostrade, il senso di cupa minaccia, l'angoscia di una presenza quasi demoniaca conferiscono al film un ritmo martellante e una suspense rara. Sembra averne tenuto conto l’anno dopo John Boorman con Un tranquillo weekend di paura, incentrato sull’allucinante discesa in canoa di quattro amici lungo un fiume, attraverso una natura intatta che sta per essere stravolta dalla costruzione di una diga. Il confronto tra mondo urbano e mondo rurale si fa conflitto e la gita si trasforma in un’orgia di violenza e di morte.

Thelma e Louise (1991) di Ridley Scott è un on-the-road al femminile, un inno all'emancipazione della donna. Quando le due amiche Susan Sarandon e Geena Davis si rendono conto che il loro sogno di libertà sta per finire, si prendono per mano e si lanciano a bordo di una Ford Thunderbird nel baratro del Grand Canyon. Il volo è interrotto da un fermo immagine rimasto famoso.

Altra fuga dalla civiltà è quella raccontata da Sean Penn in Into the Wild (2008), dove un giovanotto raggiunge l’ Alaska sterminata e deserta per rifarsi una vita dentro e attorno a un catorcio d’autobus abbandonato nella foresta. Sprofondato nelle asperità di terre infide e sconosciute, arriva a concepire il suo pensiero finale sulla vita: “La felicità è autentica solo se condivisa”.

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[sarà pubblicata il 19 giugno 2020]

 

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