La storia siamo noi...

Dalla Resistenza ai giorni nostri

di Ivan Mambretti - PRIMA PARTE

anna magnani

Anna Magnani in Roma città aperta, 1945

Come il grande schermo ha raccontato splendori e miserie della Repubblica italiana.

Quale che sia l’anima di questa Italia fatta di sogni nascosti e desideri repressi, di gioie e dolori, di euforia e di crisi, dove si alternano la corsa al successo e la paura di perdere, la voglia di combattere e la mortificazione della resa, l’ottimismo e l’angoscia, l’egoismo e la solidarietà, l’ingannevole apparire contro la semplicità dell’esistere. Ecco, tutto questo il cinema l’ha raccontato in maniera non meno efficace di altre forme d’arte. L’obiettivo prioritario dei nostri cineasti è stato quello di descrivere l’Italia che si vede e l’Italia che non si vede. Con storie buffe e tragiche, edificanti e brutali, fantastiche e drammatiche.

 

C'è qualcosa di nuovo, è aria di libertà

Due film fondamentali sulle origini della repubblica italiana sono Roma città aperta di Roberto Rossellini e Una vita difficile di Dino Risi, girati in tempi diversi. Rossellini, maestro del neorealismo, celebra la Resistenza pressoché 'in diretta' con la guerra non ancora finita e quindi tra mille difficoltà e scarsi mezzi. La pellicola consegna alla leggenda almeno una scena: Anna Magnani che stramazza al suolo colpita dai mitra nazisti. Il film di Risi invece, uscito una quindicina di anni dopo, racconta con un estroso escamotage narrativo il passaggio dalla monarchia alla repubblica. Alberto Sordi e Lea Massari, sposi indigenti e affamati, vengono inopinatamente invitati a cena da una famiglia della Roma bene che nemmeno conoscono. L’invito è dovuto non a uno slancio di generosità ma a ragioni scaramantiche: a tavola i commensali sarebbero stati tredici! La iella fa però il suo corso. La radio fornisce i risultati del referendum: ha vinto, anche se ai punti, la repubblica! Segue sgomento dei padroni di casa, che vedono crollare il loro mondo incoronato fra la malcelata esultanza dei due ospiti che brindano col maggiordomo, complice per caso. 

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Coi primi anni Cinquanta l’esperienza del neorealismo si conclude, ma sono molti i registi che successivamente vogliono dire la loro su quella fase storica. Citiamo a caso Achtung! Banditi! di Carlo Lizzani sulla lotta partigiana in Liguria, Tutti a casa di Luigi Comencini che descrive il caos dell’8 settembre, Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy. Memorabile poi il ritratto che Vittorio De Sica, diretto dal collega Rossellini, fa di Il generale Della Rovere, un truffatore da quattro soldi che finisce “martire della libertà”.

Proprio De Sica, che forma con lo sceneggiatore Cesare Zavattini un sodalizio di ferro, tenta la via del surrealismo con Miracolo a Milano, favoletta proletaria dove alla fine i poveri prendono il volo da Piazza Duomo a cavallo di scope e ramazze. Lo stesso De Sica scende poco dopo coi piedi per terra e racconta in Umberto D. il dramma interiore di un pensionato costretto all’elemosina. Dalle macerie della guerra nasce impellente l’esigenza di rinnovare la vita politica del Paese. Le elezioni del ‘48 segnano il duro scontro fra le sinistre, che si raccolgono nel Fronte Popolare, e la Democrazia Cristiana, vittoriosa e imperitura. Corrono gli anni della 'guerra fredda'. Anni inquieti durante i quali cambiano le condizioni di lavoro, i gusti, le mentalità, i rapporti interpersonali, la società, la cultura. Il cinema in particolare è al centro di un vero rinascimento che lo avvia verso due decenni di grande prestigio internazionale attraverso i tempi della ricostruzione e del boom economico, fino alla crisi del Sessantotto e verso un lento declino intervallato da effimeri splendori e amare sorprese che ci porteranno alle attuali condizioni. Ma procediamo con ordine.

Anni Cinquanta, si diceva. L’unione fa la forza e gli italiani del dopoguerra si rimboccano le maniche. Guardano con speranza al futuro pur provando nostalgia per la civiltà agricola che stanno per lasciarsi alle spalle. Non c'è pace tra gli ulivi di Giuseppe De Santis descrive le vicissitudini di personaggi arcaici segnati dal conflitto e dalla sua devastante eredità. Pietro Germi mette a frutto la propria sensibilità sociale in Il cammino della speranza, una storia di emigrazione in cui un gruppo di siciliani tenta di attraversare le Alpi per raggiungere la Francia. Impresa premiata dalla pietà dei gendarmi che chiudono un occhio e li lasciano passare. Nino Manfredi, in Pane e cioccolata di Franco Brusati, si ossigena i capelli per fare lo svizzero. Peccato che mentre segue al bar una partita della Nazionale venga tradito dal patrio tifo per un gol dei nostri, cosicchè i locali avventori lo scaraventano fuori, fra i sacchi della spazzatura. Azzeccato esempio di come un film formalmente comico scivoli verso il dramma. Ma i viaggi della speranza si consumano anche all’interno del Paese, dalle brulle campagne del sud alle città industriali del nord. In pratica arrivano i terroni! Tema al quale si dedica Luchino Visconti col biblico Rocco e i suoi fratelli, ambientato fra le nebbie di Milano. Qui una famiglia di migranti lucani patisce tutti i disagi di una integrazione al momento impossibile.

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La miseria è tanta, gli italiani soffrono e il grande schermo ben li rispecchia coi film strappalacrime di Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson (Tormento, Catene, I figli di nessuno…). Il successo è grande, quasi che piangere al cinema sia una forma perversa di svago. Divertimento in senso proprio ce lo regalano invece due comici di differente estrazione: Totò, figlio dell’avanspettacolo, e Alberto Sordi, il nuovo che avanza. Sotto la direzione di specialisti della commedia come Mastrocinque, Steno, Risi, Comencini e Monicelli, escono una moltitudine di film di cassetta che in effetti incassano. L’Albertone nazionale, che nella sua carriera impersonerà l’italiano medio con pregi (pochi) e difetti (molti), in Un americano a Roma è un bullo imbevuto di cultura yankee: chewing gum, Coca Cola, berretto da baseball, maglietta bianca, jeans coi risvolti, cibi in scatola. Ma in una sequenza iconica respinge i prodotti alimentari del 'Kansas City', come dice lui, e ripiega su un casereccio piatto di pastasciutta.

Federico Fellini, regista estroso e visionario, affida a Sordi l’analogo ruolo dello scansafatiche di provincia in I vitelloni. Anche qui c’è una scena madre: sentendosi sicuro a bordo di un’auto con amici, Sordi fa a un gruppo di lavoratori il gesto dell’ombrello con annessa pernacchia. Sciaguratamente l’auto si blocca e ne nasce un inseguimento chapliniano.

I divi americani non disdegnano di lavorare a Cinecittà che anzi, per un breve periodo diventa la loro mecca, la cosiddetta 'Hollywood sul Tevere' (sequenza emblematica Gregory Peck che porta in Vespa Audrey Hepburn in Vacanze Romane). Vanno per la maggiore i kolossal e i 'legionari romani de noantri' sostano nei pressi dei set in attesa di chiamata per fare le comparse. Via Veneto si popola di star, quelle che fanno sognare gli italiani: Clark Gable, Kirk Douglas, Alan Ladd, Robert Taylor, Ava Gardner, più la love story fra Richard Burton e Liz Taylor. È anche un modo per celebrare l’Alleanza Atlantica. Fa tendenza il cinema in costume ambientato nell’antica Grecia o a Roma, così sbarcano da oltreoceano anche attori culturisti che, recitando coi soli bicipiti, spostano massi e templi di cartapesta (il più popolare è Steve Reeves, più volte Ercole). Film precursore del genere è Quo vadis? Giusto citarlo perché fra le comparse figura colei che diventerà l’ambasciatrice del cinema italiano nel mondo: Sofia Loren.

Nella sua pellicola rural-alimentar-sentimentale Pane, amore e fantasia Comencini contrappone alla Loren Gina Lollobrigida, la 'bersagliera' che fa innamorare l’impeccabile maresciallo Vittorio De Sica.

È l’era dei governi De Gasperi. Lo sforzo è di rispettare la laicità dello stato, che tuttavia resta saldamente confessionale. Lo scontro DC-PCI è ben sintetizzato nelle zuffe guareschiane tra il focoso parroco Don Camillo e il sindaco comunista Peppone. Zuffe che peraltro finiscono sempre a tarallucci e vino, quasi anticipando il compromesso storico che pure è di là da venire.

In Todo modo di Elio Petri, esponenti della classe dirigente DC si radunano in un buen retiro di gesuiti per meditare su fatti, misfatti e devianze del potere. Le cupe atmosfere di questo film ispireranno Paolo Sorrentino, che in Il Divo descrive a modo suo la controversa figura di Andreotti. Lo interpreta un Toni Servillo in stile Nosferatu che pratica l’agopuntura per combattere le proverbiali cefalee dello scaltro politico.

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La censura incombe. Guai se i film non sottendono la morale dei buoni sentimenti. Proibito il turpiloquio. Di scene osé manco si parla, almeno fino a quando non irrompe il bikini di Marisa Allasio che fa girare la testa ai Poveri ma belli di Risi. Vanno per la maggiore pellicole ambientate sui nostri lidi o sulla Costa Azzurra. È il cinema balneare che si beffa del gallismo italico, dei playboy, di improbabili latin-lover impersonati, oltre che dal solito Sordi, anche da Walter Chiari, dai fratelli Carotenuto, da macchiette tipo Nino Taranto e Carlo Croccolo, da autentici fusti quali Antonio Cifariello e Franco Fabrizi. I paesaggi, spesso a colori in un’epoca in cui ancora domina il bianco e nero, sembrano cartoline illustrate. La sostanziale mediocrità del filone è tuttavia utile a raccontare un vivace spaccato dell’Italia in odore di boom che fiuta il rito benefico delle ferie e addestra l’esercito dei vacanzieri. Ma troppa grazia per il nostro cinema. Il nemico è già dietro l’angolo. Un nemico dalla concorrenza sleale chiamato televisione, che intraprende una inarrestabile opera di pantofolizzazione del popolo italiano. Il cinema si aggrappa a tutto pur di non perdere la partita e molte sale si dotano di un piccolo schermo per trasmettere, prima del film in cartellone, il programma del giovedì: Lascia o raddoppia? di Mike Bongiorno. Ma la furbata ha vita breve. La serata fuori casa diventa troppo lunga per un’Italia che va ancora a letto presto.

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L’episodio di cronaca più clamoroso degli anni Cinquanta è l’assassinio del bandito Giuliano, portato sullo schermo da Francesco Rosi con Salvatore Giuliano. Fonte del film sono le foto pubblicate sui giornali d’epoca: il cortile di Castelvetrano dove giace, con la canottiera insanguinata, il cadavere del fuorilegge più ricercato in Sicilia, reo di atti criminosi nel nome dell’autonomia dell’isola. Rosi recupera toni neorealistici soprattutto nella rappresentazione della strage di Portella della Ginestra e nell’avvelenamento in carcere di Pisciotta, il luogotenente del bandito. Lo stesso regista tratterà con coraggio la piaga della speculazione edilizia in Le mani sulla città descrivendo i tumultuosi consigli comunali di Napoli cui non è estranea la camorra.

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[sarà pubblicata il 6 marzo 2021]

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