Il vino nell'antico Egitto

Anche nella tomba di Tuthankamen anfore vinarie

a cura di Natale Contini

egypt thebes tomb of nakht banquet scene tombs of the nobles 1920

foto: greelane.com

I primi coltivatori della vite non furono gli Egizi. Loro, però, primeggiarono nel campo della  sperimentazione in vitivinicoltura.

Sono stato soprattutto veri e propri antesignani nel descrivere e celebrare mediante chiarissime raffigurazioni tutti i particolari della loro arte enologica.  La tradizione vitivinicola di questo popolo fu poi distrutta dalle invasioni musulmane. Tuttavia, le immagini dipinte nelle tombe degli alti funzionari (enologi o enotecnici se vogliamo loro attribuire una qualifica moderna) preposti alla vitivinicoltura sono, per fortuna, rimaste.
Si tratta di veri esperti in grado di distinguere i vitigni, la loro diversa qualità, l’annata di produzione (roba da far invidia ai più quotati enologi, wine-maker o sommelier dei nostri giorni). E sembra veramente incredibile osservando tali immagini che tutto si svolgesse dai tremila ai cinquemila anni fa.

Ma l’Antico Egitto, grazie alle disponibilità idriche dovute alla presenza del Nilo, ha sviluppato più in generale una florida agricoltura, basata, oltre che sulla viticoltura, sulla frutticoltura e soprattutto la cerealicoltura.

La produzione di cereali, esclusivamente grano, farro ed orzo assunse un’importanza sempre maggiore e fu proprio quest’ultimo cereale che permise la nascita e l’incremento del consumo di un’altra importantissima bevanda fermentata: la birra.

La produzione della birra è probabilmente antecedente a quella del vino, denominata con il termine «vino di grano». Gli antichi Egizi perfezionarono questa tecnica ottenuta dalla lavorazione del «pane da birra», vero e proprio pane di orzo e farro, sminuzzato, bagnato ed impastato con sostanze aromatizzanti.

Prelevati dal forno prima della completa cottura, i pani, venivano imbevuti di liquore di datteri e lasciati a fermentare; quindi pressati e filtrati attraverso un setaccio. La bevanda ottenuta era una birra non molto alcolica, conservata in giare di terracotta accuratamente sigillate. L’aggiunta di altri ingredienti poteva variare il suo sapore e tenore alcolico.

 

Birra dellEgitto

foto: oktoberfest.it

Già da prima del 3200 a.C. pane e birra erano comunemente utilizzati nell’antico Egitto come offerte nei rituali religiosi e nei riti funerari di ogni individuo appartenente a qualsiasi classe sociale. Ciò a testimonianza della diffusione di questa bevanda consumata quotidianamente a livello popolare.

L’Antico Egitto non ebbe vigneti di grande estensione. Nonostante il prestigio di cui godeva il vino il suo consumo era destinato alle classi più agiate e ai sacerdoti. Durante il regno di Ramsete III la viticoltura ebbe la sua massima espansione raggiungendo il numero di 513 vigneti di proprietà del Tempio. I primi vitigni arrivarono probabilmente in Egitto dalla Valle del Giordano. Ma la quantità di vino prodotta non era, a quanto si sa, sufficiente a soddisfare il livello di consumo per cui si ricorreva all’importazione dalla Fenicia, dalla Siria o da Canaan.

Dalle pitture murali presenti nelle tombe, si può ipotizzare che gli antichi Egizi furono i primi ad utilizzare le pergole. I grappoli raccolti a mano erano raccolti in ceste di paglia  per essere portati alla spremitura, fatta con i piedi in vasche sollevate. In una tomba di Tebe sono riprodotte scene che descrivono con dovizia di particolari la pigiatura dell’uva. Eseguita con i piedi (come in Portogallo) da molti uomini che, anziché sostenersi a vicenda, si aggrappavano a delle barre trasversali poste poco più in alto. In tal modo non scivolavano, evitando di cadere, durante la pigiatura. Più tardi ci fu l’utilizzo di vere e proprie maniglie a cui i pigiatori si aggrappavano realizzate con brevi tratti di corda pendenti dalle travi di un tetto di canne costruito come riparo dal sole. Un altro ingegnoso dispositivo inventato dagli antichi Egizi è il torchio a sacco che spremeva (anzi strizzava) le bucce, ancora impregnate di mosto, dopo la pigiatura. Il sacco veniva attorcigliato e il mosto estratto e filtrato.   

 

Egiziani in vendemmia 1920

Vendemmia Egiziana

L’uva vendemmiata era sicuramente, considerato il clima, perfettamente matura e ricca di zuccheri. Probabilmente la maggior parte dei vitigni coltivati erano a bacca nera. I loro nomi non si conoscono. Sempre le immagini delle tombe presentano un mosto che scende dal torchio verso la giara, dal colore scuro indice del fatto che la fermentazione iniziasse già nella vasca di pigiatura. Molti dipinti raffigurano il vino che trabocca dalle giare durante la fermentazione a testimonianza di una fermentazione più che tumultuosa, favorita dal clima autunnale e dalla dolcezza del succo d’uva.  Le anfore venivano chiuse nella fase finale della fermentazione con un tappo di canna ricoperto da una grande capsula di argilla munito di un piccolo foro per consentire la fuoriuscita dell’anidride carbonica: una volta completata, il foro veniva chiuso. Le anfore, essendo a punta, in alcuni casi venivano sdraiate su letti di sabbia bagnata. L’evaporazione dell’acqua provocava il raffreddamento del vino, favorendo l’azione trasformatrice dei lieviti.

Fin da allora esistevano le denominazioni d’origine. Conosciamo almeno sei denominazioni  diverse come testimoniato da un rinvenimento risalente al 2470 a.C. Si beveva anche un «vino dell’Asia», sicuramente importato. Su ogni contenitore vinicolo, venivano incisi alcuni geroglifici. Il primo, indicava la zona d’origine dell’uva, il secondo, il nome del produttore, il terzo descriveva la tipologia del vino con le definizioni di dolce, secco, genuino, l’ultimo, l’annata vendemmiale. La maggior parte dei vini prodotti in loco proveniva dalla parte nord del Delta del Nilo, altri da Menphis e altri ancora dall’Alto e dal Basso Egitto. 

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foto: museogalileo.it 

Quando nel novembre 1922 il grande egittologo Howard Carter, scoperse la tomba di Tuthankamen, trovò anche le anfore vinarie che avrebbero dovuto accompagnare nel suo viaggio lo spirito del giovane Faraone. Si rinvennero ben 36 anfore di cui 26 marcate con un’iscrizione in ieratico. Sette con il sigillo: «Anno 4 per la casa di Tuthankamen». Altre invece riportano l’iscrizione «Vino di buona qualità dei possedimenti di Aton». Entrambi i posti si trovano sul «Fiume Occidentale» ovvero sul ramo occidentale del Delta del Nilo, zona considerata come il migliore territorio vitivinicolo dell’antico Egitto. Ben 23 anfore indicano l’annata: 4, 5 o 6.  Molto facilmente si riferiscono agli anni di invecchiamento il che dimostrerebbe che fin d’allora erano apprezzati i vini affinati a lungo. Infatti un’anfora è marchiata «anno 31» che non può essere relativa agli anni del regno considerato che il Faraone morì a diciannove anni. Due vini recano anche l’indicazione 'nuovo' o 'fresco' assieme alla dicitura «qualità molto buona». Su tutte le anfore, salvo una, è scritto il nome del capo-cantiniere. Uno di questi di nome Kha’y era il responsabile (enologo?) sia della tenuta del Faraone che di quella di Aton. Se così è saremmo in presenza del primo wine-maker della storia, precursore del greco Esiodo (di cui parleremo la prossima volta), che nell’VIII secolo a.C. dispensava consigli sulle migliori date per la vendemmia e sui metodi  per fare il vino migliore. E, in ogni caso, è veramente singolare e non trascurabile il fatto che si desse fin da allora tanta importanza «all’uomo che ha fatto il vino» arrivando a nominarlo in 'etichetta'.

Ma una scoperta più recente ci ha rivelato altri particolari sull’importanza che gli antichi Egizi riservavano al vino. La notizia, risale a due anni fa, ed è stata riportata dall’autorevole Il Sole 24 Ore che riferisce di una pubblicazione dell’Accademia Nazionale delle Scienze degli Usa. Un team di archeochimici ha scoperto delle 'gocce di vino' nella tomba del leggendario Faraone Scorpione I che regnò nel 3150 a.C. Stando a quanto pubblicato si avrebbe la conferma che gli antichi egizi sapevano curarsi col vino, le cui proprietà erano utilizzate nella farmacopea tradizionale. Contenuto nelle suppellettili dell’arredo funebre del faraone, infatti, era custodito il frutto di una vendemmia di circa 5000 anni fa. Il vino era lasciato in dote al morto come medicina per l’oltretomba. Gli esperti dell’Università della Pennsylvania guidati da Patrick McGovern hanno infatti appurato che all’interno del liquido erano presenti residui chimici di erbe, resine e altre sostanze naturali. I primi sciroppi contro infiammazioni e febbri si facevano, quindi, con miscele di additivi naturali e bevande alcoliche come vino e birra. I medici dell’antico Egitto avevano compreso che l’alcol è in grado di rompere e di sciogliere le molecole degli alcaloidi vegetali meglio dell’acqua.
Anche a Tebe sono stati ritrovati frammenti di anfore vinarie che riportano iscrizioni che forniscono indicazioni relative al contenuto. Eccone un esempio: «Anno III di Siptah , vino del 3° giorno del vigneto del tempio di Seti Merneptah (Seti II, Faraone nel 1200 a.C.) nel dominio di Ammone della fattoria di Atum sotto la direzione del capo dei viticoltori Inana».

In un’altra iscrizione si legge: «vino 1 misura, miele 1 misura, radice di ciperus 1 misura, pestare e bere per un giorno». Si tratta probabilmente della ricetta per un lassativo, e ciò conferma l’analisi degli archeochimici americani.

Le proprietà inebrianti del vino venivano considerate dono divino come scritto in un inno religioso chiamato «L’Insegnamento del papiro Insinger» che recita: «Dio fa conoscere ogni giorno sulla terra la sua opera misteriosa, egli fa esistere la luce e le tenebre in cui sono tutte le creature... è Dio che ha fatto per l’uomo i rimedi per guarire le malattie e il vino per guarire la tristezza».

I testi delle piramidi confermano inoltre l’importanza religiosa della vigna e del vino. Il vino è la bevanda di elezione del re defunto dopo che ha raggiunto la sua destinazione celeste. I defunti glorificati sono dei privilegiati che ricevono e consumano prodotti che assicurano loro l’eterna felicità. Gli stessi testi affermano che i re defunti si nutrono con «fichi e vino che sono nella vigna del dio», ci sono di conseguenza le divinità in stretto e diretto rapporto con il vino.

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Shezmu è invece il dio del torchio 

L’elenco è lungo ma su tutte spicca il dio Osiri, «dio della vita oltre la morte». Shezmu è invece il dio del torchio che «offre a Osiri il succo dell’uva spremuta». Lo stesso dio appare poi come produttore di balsami e unguenti. Hathor è la dea-vacca alla quale è dedicata la festa dell’ebbrezza. Sekhmet, la dea leonessa che considera sangue una bevanda di colore rosso (all’apparenza vino). Diodoro Siculo, siciliota, autore di una monumentale Storia Universale, conferma, nel I secolo a.C., che fu Osiri a «insegnare al genere umano la piantagione della vite e la semina del frumento e dell’orzo». Gli scrittori greci collegarono, infatti, spesso la divinità egizia con Dioniso, il dio greco del vino. Tornando alle diverse iscrizioni scopriamo che la bevanda divina viene definita «sudore di Ra» (il dio del sole), lacrime di Horus (figlio di Osiri e di Isi, dea della terra), oppure «occhio di Horus verde», e ancora «occhio di Horus bianco», riferiti al colore della bevanda. E c’è ancora il dio Osiri che, in un papiro, offre da bere, alla sua sposa Isi e a suo figlio Horus, «una coppa del suo sangue per ottenere la sua rinascita». E l’elenco potrebbe andare avanti per molte pagine, tantissime infatti sono le rappresentazioni, le iscrizioni, i dipinti che raffigurano la più importante divinità egizia riferita al vino. Oltre ai vini anche i vigneti erano dedicati alle diverse divinità. Un solo esempio: quello di Ramses III che offre i suoi doni ad Ammone il dio di Tebe. Essi comprendevano «vigneti senza limiti per te nelle oasi del sud e anche nelle oasi del nord e altri in gran numero nella regione meridionale... Li ho forniti di cantinieri». In definitiva anche nell’antico Egitto chi se lo poteva permettere beveva il prelibato nettare dell’uva. In  ogni caso in nessuna delle numerosissime raffigurazioni si rappresentano uomini o donne ubriache. Perciò possiamo concludere che si degustavano nella giusta quantità vini di ottimo livello nel segno del bere bene per bere giusto.

 


Bibliografia

  • C.W. Ceram “ Civiltà al sole” - “Civiltà sepolte”
  • Alan Gardiner  “La civiltà egizia”
  • Otto Neubert “La Valle dei Re”
  • Patrick McGovern, “L’archeologo e l’uva”
  • M. Nelson, “Il simbolo della vite e del vino nelle tombe dell’antico Egitto”
  • Hugh Johnson “Il vino, storia tradizioni, cultura”
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