L'identità

Il carattere dei decenni

Identità musicali del secolo scorso

di Franco Ferramini - SECONDA PARTE

BennyGoodman 1200

foto: ucla.edu

Esistono periodi storici che portano i connotati di uno stile musicale inconfondibile.

 

1930

La storia del jazz, musica identitaria nelle sue radici, è un continuo nascere e confluire di invenzioni stilistiche e generi diversi nati dalla creatività musicale presa dal contatto diretto tra musicista, strumento, ascoltatore, e, spesso, strada, vie chiassose di città americane dei primi decenni del secolo. Nulla di raffinato, come poi divenne per certi versi dagli anni Cinquanta in avanti, ma molto di popolare, sanguigno, pur suonato con tutti i crismi di chi sa magistralmente usare le proprie dita per creare successioni magiche di note. Gli anni ’30 furono gli anni dello Swing, e il jazz divenne linearità musicale e ritmica, elegantemente rappresentato nei quattro tempi delle battute musicali, una fluidità in quattro quarti di cui fu massimo rappresentante Benny Goodman, the “King of Swing”. Benny Goodman necessiterebbe, come altri citati, di un articolo solo per lui: lascio al lettore, se ne ha voglia, l’approfondimento su una figura così “identitaria” dello Swing di tutti i tempi.

 

1940

Lo Swing divenne un vero e proprio “business” e quando nella storia della musica un genere diventa troppo commerciale, travalicando spesso i limiti della qualità artistica, avviene che qualche musicista vuole provare qualcosa di alternativo, di rivoluzionario a suo modo, contribuendo all’evoluzione della musica. Qualcuno già con lo Swing affermava che era arrivata “la fine del jazz”. Mai previsione fu meno azzeccata, negli anni Quaranta si passa al “Bebop”. Agli inizi del decennio diversi musicisti, che faranno la storia del jazz, si ritrovano al Minton’s Playhouse, un locale di New York sulla 118° Strada Ovest. Tanto per fare qualche nome: Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Thelonius Monk, Kenny Clarke, Charlie Christian, Max Roach… ecc. ecc., nomi che “fanno tremare i polsi” al solo nominarli agli appassionati di jazz. Che tempi, che atmosfere si può immaginare si vennero a creare in quel locale, e quanto darei per poter essere trasportato nel tempo e ascoltare anche solo un minuto dal vivo quello che accadeva alla nascita del Bebop, in quel luogo e in quel tempo! Qualche registrazione lo fa ancora intuire, ma sicuramente erano momenti magici, irripetibili, unici. Con una chiara onomatopea che rappresentava l’intervallo di quinta diminuita discendente, nella musica sacra medioevale definito “l’intervallo del diavolo” per la sua dissonanza, nacque il genere musicale moderno per eccellenza, il Bepop appunto. Da allora, la musica jazz non fu più la stessa.

 

1950

Si diffonde il “Cool Jazz”, quello che per molti viene meglio compreso come “jazz freddo”, uno stile più rilassato, raffinato, meditato. Nella musica jazz si cominciò a pensare, non che fino ad allora i musicisti fossero tutti solo dei puri istintivi, tutt’altro, ma con questo genere musicale sembrò quasi che il mondo delle note improvvisate dovesse assumere un aspetto più riflessivo, quasi da musica classica. In questo periodo nasce una stella divina, un simbolo identitario di musica e negritudine, bello e orgoglioso nel suo genio e nel suo splendore nero, assoluto, irraggiungibile. Estremamente curato nel vestire, serio e quasi cupo, preso di sé e spesso imperscrutabile, pochi sorrisi calibrati, fiero di essere nero, così è stato Miles Davis. Così lui sarà per sempre, nella storia della musica di tutti i tempi. Solo dei nomi, altri nomi di questo decennio che pose le solide basi di quello che saranno gli anni futuri del jazz: Lennie Tristano, Lee Konitz, Dave Brubeck, Shelly Manne, Lee Konitz, Stan Getz, Max Roach. Solo alcuni di questi, veri e propri giganti.

 

1960

Il decennio della contestazione, della ribellione giovanile. Nella società si volle rompere tutti i vecchi schemi. Nasce il “free jazz”. Non più melodie, non più armonie, la musica doveva essere libera, pura improvvisazione senza canoni predefiniti. Ornette Coleman, col suo album del 1960 “Free Jazz: A Collective Improvisation” dettò un tracciato che verrà percorso da molti. Non più rigidi schemi, ma la voglia di suonare al momento quello che si vuole, ciò che si è interiorizzato sentendo in giro l’umore dei tempi che, come cantava Bob Dylan erano tempi che stavano cambiando, “The times they are a changin’ ”.

 

1970

Il decennio per eccellenza della sperimentazione, la ricerca di nuovi orizzonti. Anche nel jazz irruppe la voglia di cimentarsi con strumenti elettronici, anche se i puristi come sempre storsero il naso. Miles Davis, col suo album “Bitches Brew” del 1970, fondò il “jazz elettrico”, per la prima volta un jazzista lasciò spazio a strumenti tecnologici nella sua musica. In realtà questo album è stato preceduto in questo dal suo “In a silent way” del 1969, ma spesso “Bitches brew” viene considerato come l’inizio della fusion, contaminazione tra quello che si sentiva nel rock in quegli anni e il jazz tradizionale. Sono anche anni di musica che oggi viene definita “Progressive”, gruppi di musica popolare, con strumentisti d’eccellenza, si cimentarono in brani musicali con richiami alla musica classica e al jazz. Nacque anche il “jazz-rock”, con un supergruppo come i Weather Report, e il funky, uno stile molto ritmico in cui la batteria e il basso elettrico la fanno da padroni. Un decennio splendido per la musica, fatto di musicisti e produttori che non avevano paura di proporre al pubblico cose veramente nuove, con risposte di gradimento altissime. Un decennio irripetibile.

Mi fermerei qui. Ognuno dei decenni del secolo scorso descritti ha una propria identità musicale ben precisa. Non nascondo che, forse per forma mentale dovuta alle mie “primavere” vissute, faccio fatica a classificare gli anni successivi in una collocazione storica identitaria ben precisa e di un certo rilievo. Gli stili musicali dagli anni ’70 del secolo scorso in avanti, perdonatemi per questa affermazione forse un po’ categorica, li definirei “minori”, sperando di non ricadere nell’errore di chi già nell’ultimo dopoguerra decretava la “fine del jazz” o di chi in genere periodicamente sostiene la fine di una qualche forma artistica, senza pensare che invece il mondo, magari a nostra insaputa, inevitabilmente si evolve in direzioni che a noi sfuggono. Lascio al lettore il gusto di cercare un genere musicale, che abbia però un certo rilievo qualitativo, che smentisca queste mie riflessioni, felice in tal caso di essere contraddetto.

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