Esercizi sulla madre

Romanzo di Luigi Romolo Carrino

di Deborah Mangiafico

bambino che aspetta

Vorrei poter dire cose belle su questo nuovo tema, ma in realtà non me ne vengono. L’amore è il sentimento più devastante, più totalizzante, più disarmante che esista. E anche quando siamo consapevoli di ciò che comporta, è impossibile evitare di esserne travolti. 

Perché d’amore si nasce, si cresce e si muore. Parrebbe facile pure trovare il materiale da considerare per questo mio appuntamento, in fondo ogni romanzo più o meno esplicitamente parla d’amore.

Ma comunque, dato che troppo facile non è bello, scriverò del 'non amore'.

madre«Sono passati più di trent’anni dal giorno che sei uscita, ma sono ancora qui con i pensieri del bambino che ero. Sono questo giorno ripetuto di febbraio e ho macchie nella memoria che mi scuriscono i pensieri, fanno diecimila ombre sulle pareti della stanza dove dormo e non lo so più se piangere o dirti addio, scriverti una lettera, perdonarti o dirti torna, io sempre ti aspetto».

Il 27 febbraio 1976 alle 21.06 Giuseppe, bambino, otto anni, si è seduto davanti alla porta chiusa della casa in cui viveva con i suoi genitori e ha aspettato che sua madre rientrasse a casa dalla banale commissione della spesa. Sono passate dieci lunghe ore, ha fatto molto freddo e Giuseppe, nel buio della notte, bambino, ha avuto molta paura. Ma Madre non è tornata.

Esercizi sulla madre, terzo romanzo di Luigi Romolo Carrino, è la storia di questa attesa, iniziata davanti a una porta chiusa e durata trent’anni di buio quasi totale e di pochi ricordi raccattati in quell’unica notte all’anno in cui Giuseppe, che oggi ha 42 anni ed è rinchiuso in un ospedale psichiatrico giudiziario, può risvegliare il proprio pensiero dal torpore farmacologico e risedersi su un gradino, davanti a una casa che non è casa sua ma che un po’ ci somiglia, per provare a capire cosa è successo, per fare «l’esercizio del ricordo» che sottende «l’esercizio della mancanza, un irrobustimento come Klaus e Lukas de Il grande quaderno», e mai per me citazione fu più azzeccata.

Affinché ricordi, all’interno dell’istituto è stato predisposto un ambiente simile alla casa in cui Giuseppe viveva da bambino, con l’intento di colmare gli spazi muti della memoria e possa riprendere a far girare le lancette del tempo che lo immobilizzò in una condizione di stasi perenne, fermo e immobile in attesa di lei. Nelle macchie di Rorschach che il dottor Allocca gli sottopone, scorge dieci madri, una per ogni tempo dell’attesa, una per ciascun demone dell’assenza. Dieci esercizi, uno per ogni tavola. Ed è lo schema che compone la costruzione del romanzo, suddiviso in dieci capitoli ciascuno del quale inizia con la voce di Madre e continua con quella di Giuseppe. Capitolo dopo capitolo, si compongono dieci monologhi, uno per ora, uno per volto di madre, sempre diversa, sempre cangiante, lei sfigurata dalla memoria.

 

Luigi Romolo Carrino

Luigi Romolo Carrino

 

In ultimo poche pagine dal titolo La Madre che sono una preghiera, di più: un salmo, di più: una supplica, ancora di più: una poesia. E viene voglia di abbracciarlo e stringerlo forte al cuore, questo bambino in un corpo di uomo, questo spettro di se stesso prigioniero della mancanza, dannato dell’amore più grande che possa esistere, quello tra madre e figlio.

«Sono offeso, scorticato, un pazzo, un criminale. Ai criminali è concessa una madre che sceglie di non farlo nascere, di farlo nascere morto, di fargli bene fargli male di abbandonarlo e di restare con lui. Ma soltanto ai pazzi è concesso di amarla in ogni caso».

Giuseppe ha otto, sedici, quarantadue anni. Tutti quelli che servono per attendere Madre seduto sui gradini di casa. Invano. Ha piegato il tempo per raggiungerla, ha cambiato lo spazio per trovarla, si è seduto davanti a un medico per incontrarla. Ora si trova all’interno di un ospedale psichiatrico giudiziario e continua ad aspettare. 

Giuseppe per dieci lunghe ore cerca una ragione, un motivo plausibile per cui Madre possa averlo abbandonato. Gravato dal senso di colpa inconsapevole che divora chiunque abbia in sé una mancanza, scava dentro di sé alla ricerca del difetto, dell’errore che forse lo ha reso insopportabile a quella donna bionda con gli occhi azzurri e l’ombretto verde. Costruisce dieci realtà parallele, una per ogni ora, per sfuggire all’unica verità, la verità che in tutti questi anni ha preferito renderlo folle piuttosto che rivelarsi in tutta la sua bruciante tragicità.

La trama ruota intorno alla negazione del ricordo di un’esperienza sconvolgente, un terribile delitto che percorre l’intera narrazione, ma che apparirà chiaro al lettore solo alla fine.

«Stanco dello spavento che mi tremava sulla bocca, feci mia e la voce di Madre a ogni ora che passava, fino a quando il gradino di marmo non divenne una lapide dell’assenza».

Ed è proprio la voce di Madre ad affermare che l’allucinazione è compensazione dell’assenza, e che la madre non è altro che una maiuscola forma d’assenza, l’assenza più bella.

«Ti Amo». Due parole che in un ipotetico riverbero potrebbero diventare «Ci Sono». Amare ed esserci. L’uno per l’altro. In una reciprocità che l’amore essenzialmente nutre e di cui a sua volta si nutre, ma che in queste pagine è negata, persino nell’edipico rapporto tra madre e figlio, qui distorto all’inenarrabile.

Non è un romanzo semplice. Lo stile è complesso e la parola è ricercata sia che si tratti di quella semplice di Giuseppe bambino, sia che si tratti della voce alterata della madre. La costruzione del romanzo è complicata. La tensione è nelle cose, più che nella trama, in ogni riga si intuisce un boato sotterraneo che scuote e spaventa.

 

 

Non è una lettura che posso consigliare a chiunque, leggere Esercizi sulla madre è un impegno serio con i propri limiti e con la propria sensibilità, è quasi un esercizio essa stessa. Forse perché le notizie di cronaca nera che più ci agghiacciano sono quelle che riguardano madri e bambini, toccano corde profonde delle nostre più lontane paure, così lontane che neppure ce le ricordiamo, ma che tornano a galla con la potenza che ci fa tremare e ci fa sentire piccoli, indifesi, abbandonati. Forse perché l’amore si impara, da quando veniamo al mondo ma probabilmente ancora da prima, e se così non è forse è meglio neppure venire al mondo.  Ebbene sì bisogna essere coraggiosi per leggere questo libro in cui si parla di follia, di un bambino, poi uomo, che deve confrontarsi con l’abisso che si porta dentro, che si scortica, sanguina nel tentativo di polverizzare l’amnesia che l’affligge e fare i conti finalmente con la realtà, la verità, nuda e cruda.

La privazione dell’amore materno e l’abbandono. L’angoscia segreta di ogni bambino.

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