Suggestioni d'inverno

Parole invernali di tre cantautori

di Franco Ferramini

alan sorrenti

Alan Sorrenti

«Un pallido sole dietro alle nuvole scioglie d’incanto cristalli di ghiaccio». Ecco una delle frasi tratte dalla canzone «Un viso d’inverno» del 1974 di Alan Sorrenti, dall’album omonimo.

Sono parole che si possono scolpire in modo indelebile nella mente di chi ama l’inverno. Da questo lavoro il grande pubblico iniziò a conoscere questo cantautore partenopeo 'atipico', con la riedizione moderna del classico della canzone napoletana «Dicitencello vuje».

Alan, non tutti lo sanno, ha un consistente passato antecedente la sua 'hit' «Figli delle stelle». Nato a Napoli il 9 dicembre 1950 da padre napoletano e madre gallese, trascorse gran parte della sua infanzia nel Galles. Pubblicò nel 1972 il primo album «Aria» e nel 1973 «Come un vecchio incensiere all’alba in una città deserta», proponendo una forma molto efficace di rock progressivo quasi sperimentale, psichedelico, rifacendosi a Tim Buckley e Peter Hammil. Come non sognare, per gli adolescenti del tempo, con le parole e la musica di «Vorrei incontrarti», nella quale si narra di un ipotetico, futuro incontro con una onirica ragazza ancora di là da venire, o con l’auspicato ritorno di «Serenesse» nella canzone omonima.

 

 

Comunque la si pensi, qui si parla di grandi arrangiamenti, musicisti di spessore, testi di rilievo e di un coraggio nella sperimentazione, certo favorito dalle contingenze, che oggi ormai non esiste più. Ma è nel testo della canzone «Un viso d’inverno», che a mio parere si raggiunge uno dei più alti livelli cantautoriali degli anni Settanta.
Recita così:
«Ehi, inverno, nella stanza che trovi, con le tendine chiuse e il telefono fuori uso? Tra file di alberi fitti ed austeri, tra giovani foglie di questo inverno, che scorre lento, troppo lento. Un pallido sole dietro le nuvole, scioglie d’incanto cristalli di ghiaccio, di un viso d’inverno, che scorre lento, troppo lento (frase ripetuta tre volte tra vocalizzi vari). Viso d’inverno che scorre lento, troppo lento».

Un testo breve, intimista ed essenziale, cantato con la voce femminea da soprano tipica di Alan Sorrenti, in una atmosfera musicale con effetti sonori che riproducono alla perfezione un ambiente freddo e glaciale. Nonostante il testo così breve, il brano dura quasi otto minuti, un tempo veramente lungo per una canzone. Quando non canta Alan vocalizza, accompagnato da un tappeto musicale in cui ogni nota è calibrata a puntino per descrivere la stagione rappresentata. Da una stanza Alan inizia dialogando con l’Inverno, lo esorta quasi a farsi vivo di persona dicendogli chiaramente da buon napoletano amante del sole e della bella stagione che «scorre lento, troppo lento».
Ma non odia questo periodo dell’anno, riconoscendone in poche parole la sua splendida ed algida bellezza, che può permettere questa sua riflessione e un ripiegamento interiore quasi mistico sottolineato dalla parte finale del brano, diversi minuti di vocalizzi sottolineati da un arrangiamento musicale di prim’ordine. Quale migliore celebrazione dell’inverno?

 

 

D’altro genere e di altra drammaticità è invece l’inverno di Fabrizio De Andrè. Con un inizio di tromba suggestivo e struggente inizia la sua canzone «Inverno» dall’album «Tutti morimmo a stento» del 1968. Il testo, come  quasi tutte le canzoni di Faber, è una vera e propria poesia in musica che, invece di rispettare una metrica poetica adatta parole e frasi profonde e liriche alla grammatura del rigo musicale. Riporto il testo, che vale la pena di essere letto anche senza musica, affinché ognuno possa sperimentare una propria cadenza personale, nelle parole del vate della musica italiana:
«Sale la nebbia sui prati bianchi, come un cipresso nei camposanti, un campanile che non sembra vero, segna il confine tra la terra e il cielo. Ma tu che vai ma tu rimani, vedrai la neve se ne andrà domani, rifioriranno le gioie passate, col vento caldo di un’altra estate. Anche la luce sembra morire, nell’ombra incerta di un divenire, dove anche l’alba diventa sera, e i volti sembrano teschi di cera. Ma tu che vai ma tu rimani, anche la neve morirà domani, l’amore ancora ci passerà vicino, nella stagione del biancospino. La terra stanca sotto la neve, dorme il silenzio di un sonno greve, l’inverno raccoglie la sua fatica, di mille secoli da un alba antica. Ma tu che stai perché rimani? Un altro inverno tornerà domani, cadrà altra neve a consolare i campi, cadrà altra neve sui camposanti».

Un testo sull’inverno completo, apicale, definitivo, capace di toccare le corde più profonde della sensibilità umana. Una canzone cantata magistralmente anche da Franco Battiato nel suo album «Inneres Auge» del 2009, con la sua voce flebile ma fermamente ispirata, dolce nell’omaggio al cantautore genovese che era già scomparso da molti anni. Molto bella anche la versione dell’arpista Cecilia Chailly. La sua voce piena di grazia si accompagna all’arpa, con l’intervallo azzeccato di un violoncello a metà canzone. Pieno rispetto per il testo e per la musica, penso che De Andrè avrebbe apprezzato.

 

 

Nel pieno inverno del 1967, un maledetto 27 gennaio morì a Sanremo Luigi Tenco. Suicidio o omicidio, tante tesi sono state ipotizzate da quel giorno su questo triste evento; ma una cosa è rimasta, ferma e inconfutabile su quel giorno, il meraviglioso omaggio di Fabrizio De Andrè al suo sfortunato amico nella canzone «Preghiera in Gennaio». Tra le frasi di questo testo ne scelgo una, significativa della personalità di Tenco:
«Signori benpensanti, spero non vi dispiaccia, se in cielo in mezzo ai santi, Dio fra le sue braccia, soffocherà il rimpianto, di quelle labbra smorte, che all’odio e all’ignoranza, preferirono la morte».
Faber del 1967 non sapeva delle ipotesi più o meno complottiste di omicidio nei confronti del cantautore suo concittadino che si svilupparono successivamente. A quei tempi il suicidio sembrava acclarato.

 

 

Ecco come Francesco Guccini ha descritto i mesi dell’inverno nella sua «Canzone dei dodici mesi», dall’album «Radici» del 1972:
«E mi addormento come in un letargo, dicembre, alle tue porte, lungo i tuoi giorni con la mente spargo, tristi semi di morte, tristi semi di morte. Uomini e cose lasciano per terra esili ombre pigre, ma nei tuoi giorni dai profeti detti, nasce Cristo la Tigre, nasce Cristo la Tigre. Viene gennaio silenzioso e lieve, un fiume addormentato, fra le cui rive giace come neve, il mio corpo malato, il mio corpo malato. Sono distese lungo la pianura bianche file di campi, son come amanti dopo l’avventura neri alberi stanchi, neri alberi stanchi. Viene febbraio e il mondo è a capo chino, ma nei convitti e in piazza, lascia i dolori e vesti d’Arlecchino, il Carnevale impazza, il Carnevale impazza. L’inverno è lungo ancora ma nel cuore appare una speranza, nei primi giorni di malato sole la primavera danza, la primavera danza. Cantando marzo porta le sue piogge, la nebbia squarcia il velo, porta la neve sciolta nelle rogge il riso del disgelo, il riso del disgelo. Riempi il bicchiere e con l’inverno butta la penitenza vana, l’ala del tempo batte troppo in fretta, la guardi è già lontana, la guardi è già lontana».

 

 

La canzone in realtà parte canonicamente da gennaio per finire a dicembre; io sono invece partito da dicembre per mettere in fila i mesi dell’inverno. Dalle sue parole, si deduce come Francesco Guccini ai tempi non amasse molto l’inverno. Questione di gusti ovviamente, per chi scrive è invece la stagione preferita.

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