Teatro nei carceri italiani

Uno spazio di libertà inaspettata

di Veronica Pozzi

prigioneLa prima volta che ho varcato le mura di un carcere per assistere ad un laboratorio teatrale non sapevo bene cosa aspettarmi. Mi sono ritrovata in un freddo teatro all'interno del carcere di Milano-Opera. 

Una trentina di occhi guardavano con aria incuriosita la studentessa universitaria che avrebbe rivolto loro alcune domande sul laboratorio di teatro inframurale. 
Le risposte che agenti di Polizia Penitenziaria e detenuti mi hanno dato sono state il nucleo centrale della mia tesi di laurea, incentrata appunto sul teatro in carcere quale strumento di rieducazione del condannato. Ciò che più mi ha colpita è stata la valenza che l'attività attoriale ricopre per un soggetto detenuto. "Sul palco mi sento libero. Mi tolgo la maschera e sono veramente me stesso". Questa è stata la risposta comune di molti dei dodici detenuti del Circuito Alta Sicurezza partecipanti al laboratorio: provenienti da contesti di criminalità organizzata caratterizzati da etichette comportamentali rigide e infrangibili, queste persone hanno paradossalmente trovato uno spazio di libertà in un luogo in cui la libertà è sottratta per definizione.

I laboratori teatrali in carcere sono una realtà piuttosto recente nel panorama italiano. Apparsi nei primi anni '90, si stanno diffondendo con importanza proprio in questi anni anche se la loro presenza non è garantita in ogni istituto penitenziario. Ciò che si trova in ogni carcere, invece, è un preciso microambiente che vede le persone detenute sottoposte ad un doppio processo di carcerazione. Alla detenzione fisica si affianca infatti un processo ben più profondo e duraturo di detenzione: la prigiona del sè, dell'adulto umano. Erving Goffmann ha definito il carcere un'istituzione totale, poiché tutta la vita carceraria si svolge sotto la medesima autorità, nel medesimo luogo fisico, senza interruzione di continuità in spazio e tempo. Non vi è infatti quella separazione fra diversi aspetti della vita (lavoro, famiglia, tempo libero) che una persona libera sperimenta. Il tempo si dilata all'inverosimile ed è scandito dai ritmi della vita carceraria. A cominciare dall'entrata in carcere con la relativa spogliazione dai propri beni personali e con l'assegnazione di un numero di matricola, il detenuto è chiamato ad affrontare anche un processo di infantilizzazione, che lo vede non più uomo adulto capace di determinarsi ma come un bambino che, per agire, deve fare una "domandina". Anche l'esperienza teatrale inizia con una "domandina" da parte del detenuto, che deve essere approvata dal commissario di reparto e dal team di educatori presente all'interno del carcere. In un contesto di istituzione totale e totalizzante che depersonalizza il soggetto detenuto, il teatro in carcere si è rivelato essere non solo un potente strumento rieducativo ma anche un primo luogo in cui la persona detenuta può ritrovare se stesso, quell'adulto che gli appartiene e riscoprire le proprie potenzialità.

finestra ante ferro

Il teatro in carcere consiste in una "rivoluzione umana", per usare le esatte parole di un detenuto intervistato. È una rivoluzione che consente di vivere meglio l'altrimenti difficile regime carcerario, che stimola un benessere e un percorso di crescita della persona detenuta. Come ho appurato durante la mia ricerca, i primi risultati si vedono a livello fisico: in teatro il corpo, normalmente recluso in cella e ingabbiato in movimenti standardizzati e ridotti, ha l'opportunità di spaziare e di risvegliarsi. La libertà corporea viene poi affiancata da una libertà più profonda, comportamentale. In un mondo dove le convenzioni sociali ci impongono gestualità e comportamenti preconfezionati, il teatro offre un'esperienza di libertà che viene tanto più apprezzata dai detenuti, da sempre rinchiusi in comportamenti preconfezionati del mondo criminale e, dopo, di quello carcerario.

Il teatro in carcere, infine, è un grande luogo di comunicazione. Le rappresentazioni, aperte al pubblico esterno, sono un momento essenziale di condivisione che consente di abbassare il muro di separazione fra carcere e società esterna e di riscoprire in fondo quei sentimenti che accompagnano tutti gli animi umani, accantonando lo stereotipo del detenuto pericoloso e incolto.
Gli spettacoli al carcere di Milano-Opera richiamano sempre spettatori, forse incuriositi dal varcare le mura carcerarie. L'ultimo spettacolo, andato in scena nel teatro del carcere lo scorso Aprile, è stato Siddharta, un musical ideato e scritto dalla regista Isabella Biffi, di origini valtellinesi, che ha lavorato alle musiche in collaborazione con il convalligiano Fabio Codega. Un musical valligiano, dunque, che parla della ricerca del sé e di risposta alle domande più profonde della vita. Un contenuto complesso ma di certo stimolante e arricchente, soprattutto per le persone recluse che, a questo punto della loro esistenza, mettono in discussione il loro passato nel tentativo di costruire un futuro diverso.

 

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